domenica 27 agosto 2023

 PENSIERI SULLA MAGLIETTA
FRANCESCO NETTI DJ SET

 

Celebrare un avvenimento con una maglietta stampata serve probabilmente non solo a contribuire alla diffusione pubblicitaria dell’iniziativa, ma a lasciare in chi la riceve o la indossi pure solo per quell’evento un segno, una traccia, un ricordo.

Quella realizzata in occasione del FRANCESCO NETTI EXPERIENCE DJ SET di domenica 27 agosto 2023 presso l’atrio del Palazzo Marchesale a Santeramo in Colle (BA), mi ha offerto anche una pista di riflessione.

Ho cercato in più occasioni di cogliere il senso dell’espressione usata da Francesco Netti in una lettera a Domenico Morelli del luglio 1859 nella quale afferma di essere sempre un forestiero nel paese nel quale era nato.

Cosa può significare veramente quella espressione ieri ed oggi? Cosa o chi genera questo senso di estraneità nella propria terra?

L’espressione mi è parsa di una drammaticità paradigmatica, quasi esemplare, meritevole di approfondimento e di qualche osservazione per andare oltre il semplice sentimento del sentirsi incompreso, in un paese abitato da una secolare arretratezza e per l’apatia degli abitanti.

Cosa crea il senso di identità e di appartenenza e cosa invece il suo contrario, se davvero la coscienza identitaria è un bisogno primario di ogni uomo?

Tentare la risposta a simile domanda, dove cercare il senso autentico della propria identità, non può prescindere anche dal dare risposta a questioni ancora più profonde: chi sono io? Da dove vengo? A chi appartengo? Tanto che per affrontarle sono nate la filosofia, la religione, la musica, l’arte, tutte quelle discipline che trovano il loro fuoco non nel mondo esterno, ma nell’universo interiore, dove spesso drammaticamente sorge la domanda sulla propria identità.

Decostruendo il senso di identità, il teologo Vito Mancuso afferma che la nostra più vera identità non è definita da qualcosa di esteriore, da ciò che non abbiamo scelto.

Oggi si discute sulla sorgente che conferisce a un essere umano l’identità di italiano: c’è chi sostiene che sia il nascere da genitori italiani cioè il sangue (ius sanguinis); chi il nascere in Italia cioè il territorio (ius soli); e chi la formazione ricevuta in Italia cioè la cultura (ius scholae). Ma oltre alla nazionalità vi sono altre sorgenti dell’identità di un essere umano: vi è la professione, che fa essere insegnante o pasticciere o altro; la politica che fa essere di destra o di sinistra o di centro; la religione, che se affermata ci fa essere credenti e se negata atei. E ancora non poche altre cose. 

Ma quanto appare a prima vista decisivo parlando di identità è il fatto di essere nati con un determinato corpo e in un determinato territorio. E così riteniamo che la nostra identità sia anzitutto di essere maschio o femmina, bianco o nero, con una tendenza sessuale o un’altra, italiano o di altra nazionalità, del nord o del sud, di questa o quest’altra città. Io però ritengo che la vera identità di un essere umano non sia definita né dalla sua corporeità né dalla sua provenienza.” (Vito Mancuso, Custodire l’identità).

Ma cosa vuol dire di più quella frase di Francesco Netti stampata sulla maglietta: “Sono sempre un forestiero nel paese dove sono nato”?

Posso riferirlo ad un luogo interiore o contestualizzarlo solo in un ambito geografico?

Mi è di aiuto in questo percorso di ricerca l’esperienza di un personaggio che ormai novantenne ha dato di sé la seguente definizione: “Io, sempre straniero.”

Zygmunt Bauman, importante sociologo scomparso di recente, ha vissuto in Polonia, Israele, Inghilterra e con straordinaria lucidità, quasi prossimo al termine dei suoi giorni, dava di sé proprio la definizione di straniero, orgoglioso di essere sempre rimasto tale.

Ebreo polacco, vittima del nazismo, comunista e poi anticomunista, fu anche espulso dal suo paese.

«Un comico inglese - raccontava – diceva che l’ebreo è un uomo che in ogni luogo è fuori luogo. Sì, sono nato straniero e morirò straniero. E sono innamorato di questa mia condizione. […]. Nell’essere “straniero” ci sono alcuni privilegi. Il più grande di questi è potersene infischiare dell’opinione pubblica. L’unico tribunale è quello della propria coscienza ed è il più severo di tutti.»

Se Bauman ha ricondotto e legato il sentimento di estraneità ad un libero atto di coscienza giudicante il proprio essere ed il proprio operato, l’idea di identità, legata ad un soggetto libero e responsabile, sembra ricondurci alla massima filosofica di Socrate, «Conosci te stesso», rimarcando di fatto che in realtà inizialmente non conosciamo chi siamo.

SIAMO TUTTI STRANIERI STIAMO TUTTI STRANIERI.

La scritta campeggia in alto e in basso sulla maglietta, con una ripetizione ininterrotta a rimarcare il concetto di estraneità.

Possiamo davvero considerarci anche noi stranieri? Anche per noi la nostra identità è giudicata dalla nostra coscienza? Davvero il mio unico giudice è la mia coscienza?

Altre domande mi si presentano e mi interrogano, soprattutto riguardo chi vive materialmente la condizione di straniero in questa terra, magari dopo averla raggiunta avventurosamente o pericolosamente spinto dalla necessità o dalle guerre.

Una semplice maglietta ha dettato i temi di una giornata, richiamando l’attenzione ai temi dell’identità, dell’accoglienza, della convivenza, della coabitazione, della fratellanza, messaggi ai quali per lo più parte degli umani resta indifferente e parte si attrezza per avversare, oltre al senso di umanità, chi estraneo lo è davvero, facendo leva sulle paure o su sentimenti ancor meno nobili.

L’indifferenza, come sottolinea ripetutamente don Luigi Ciotti agli studenti, resta per molti oggi la realtà predominante, tanto da affermare che a fare la differenza oggi è proprio l’indifferenza. E se negli anni sessanta l’analisi della condizione umana ci presentava l’uomo ad una dimensione, titolo di un famoso libro di Herbert Marcuse, quella individuale, oggi possiamo sicuramente rilevare la dimensione di un uomo che vive anche nella completa indifferenza.

Forse non è neppure un caso che quella maglietta per rompere la dimensione dell’indifferenza sponsorizzasse proprio un evento musicale, in un cartellone molto vasto di iniziative estive, un dj set, un mescolamento fatto con arte di musiche diverse.

E’ ancora tutto da analizzare questo evento che oggi purtroppo ho letto alla luce di un passo evangelico che risuona come una condanna su di una umanità che lega il proprio senso di appartenenza ad una dimensione marcata proprio da forme di indifferenza:

Abbiamo suonato il flauto e non avete ballato;

vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!” LC 7,31-34.

Proprio come quegli idoli che hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non sentono.

Benché straniero in terra straniera, non restò indifferente Francesco Netti durante la guerra che si combatté in Francia alla tragedia umana degli uomini di una parte e di quella avversa, che indossavano loro malgrado le vesti soldati: fu per questo che prestò servizio presso l’Ambulanza della Croce Rossa Italiana.

Possono una maglietta ed un po’ di musica stimolare tali pensieri e veicolare simili messaggi?

Io credo che oggi Francesco Netti sarebbe stato contento di venire a ballare con noi.

 

Santeramo in Colle, 27/08/2023

Vittorio Dinielli



















domenica 26 marzo 2023

 

Scritture ai tempi del Coronavirus, ovvero sul bisogno di pensare e raccontare.

Con uno sguardo dal locale al globale, dall’intimo personale all’universale: le opere da non perdere, perché (ri)leggere quello che siamo stati durante la pandemia, può allenarci a decifrare il cinismo del nostro tempo, attraverso situazioni, tipi e tensioni che lo caratterizzano.

 


 

Profondamente diversi sia nella loro struttura che nei contenuti, i testi dei quali di seguito viene suggerita la lettura sono espressione del medesimo bisogno, profondamente umano, di leggere la realtà e di raccontarla.
Dalla tremenda “meraviglia” che nasce dinanzi allo spettacolo della morte messo in scena dal nuovo virus, parte e si dipana l’esigenza di pensare e di fissare, attraverso la scrittura e la pubblicazione, emozioni, percezioni affettive, considerazioni, analisi, spinti dal desiderio di condividere quanto ha stimolato la propria sensibilità.
Abbiamo assistito nel periodo della pandemia del Covid19, soprattutto nel periodo del primo confinamento forzato, alla nascita di una vera e propria letteratura coronavirus-correlata, tanto che potrebbe apparire a qualcuno un nuovo genere letterario, se non fosse che in realtà questo filone è ben attestato in letteratura. Posiamo ritrovare in quantità interi brani o opere del passato nate o ambientate in periodi di gravi calamità, come nel caso delle epidemie delle quali resta traccia in alcuni racconti biblici, sulle quali incombe minacciosa e terribile il presentimento di una "punizione divina", fino al più noto Decameron di Giovanni Boccaccio, limitandoci solamente a citare le ambientazioni operate da Manzoni e da Camus durante una pestilenza o i drammatici resoconti storici, come quello della Guerra del Peloponneso di Tucidide.
Anche a voler cercare nella tradizione orale, ritroviamo racconti di ricordi e memorie trasmessi dai nostri nonni, come nel caso della epidemia da “Spagnola” sul finire del secondo decennio del secolo scorso.
Epidemia, pestilenze, cataclismi e vari altri accidenti imponderabili non sono mai mancati nel corso della storia, tanto da lasciate attoniti, impauriti e impressionati interi popoli. Quale indicibile shock, quale terrifico stupore avranno provato gli egiziani, ad esempio, mentre vedevano morire tutti i loro primogeniti!
Basti anche solo pensare alla diffusione nel 1300 della Peste Nera in tutta Europa: un vero "flagello", che veniva considerato come inviato “per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione” (Decameron, Introduzione alla prima novella).
Dimenticati ormai da tempo i racconti della storia, una terribile sorpresa è stato nei giorni della nostra ipertecnologica modernità scoprirsi così vulnerabili e che le drammatiche narrazioni del passato potessero stendere ancora la loro funesta ombra anche sul nostro tempo.
Eppure, nonostante il trascorrere dei secoli, ancora ai nostri giorni c’è stato chi ha interpretato la recente pandemia da Coronavirus come un "castigo di Dio" per i peccati dell’uomo. Chiara a tal proposito la visione del noto teologo domenicano Giovanni Cavalcoli, verso il quale non sono mancate, neppure da parte mia, le manifestazioni di disapprovazione e la totale presa di distanza dal suo pensiero, che il domenicano ha ribadito a più riprese pubblicamente in diverse occasioni, anche nei giorni immediatamente successivi al  terremoto delle Marche, argomentando, oltre che sulle onde di una radio “che fa male a chi l’ascolta”, secondo la pungente definizione di p. Alberto Maggi su Radio Maria, e articolando ampiamente il suo discorso in una sua nuova pubblicazione intitolata “Perché peccando ho meritato i tuoi castighi. Un teologo davanti al coronavirus”, edizioni Chorabooks, Epub.
Padre Cavalcoli resta il segno tangibile dell’esistenza di un mondo religioso conservatore, espressione di un pensiero teologico ancorato a paradigmi preconciliari, completamente staccato dalla vita e dalla realtà degli uomini.
La produzione letteraria nata nella pandemia da Coronavirus ha rappresentato una vera sfida allo strapotere della morte, nelle sue più diverse gradazioni, una reazione umana, naturale, positiva all’oppressione dell’angoscia raggelante e della solitudine. È servita da antidoto non solo all’irrazionalità dilagante, al complottismo, al negazionismo, alla retorica ingenua dell’“andrà tutto bene”, apparsa subito vacua, e perfino a quella degli “eroi”, ormai troppo presto dimenticata, considerato il moltiplicarsi dei fenomeni di aggressione al personale sanitario nelle strutture di primo soccorso.
A prescindere da forma e contenuto, queste opere restano documenti storici importanti che testimoniano il potere terapeutico della scrittura, capace di rinsaldare legami umani e di riportarci alla dimensione sociale più viva e reale, sia pur nelle problematiche e nelle contraddizioni dell’agire umano e delle avversità della storia.
Per quanti di noi sono rimasti indenni o hanno superato il difficile periodo pandemico, tornare a leggere le opere nate in questo periodo significa essere obbligati ad un esercizio di riflessione sul pericolo trascorso, sulla differente percezione del rischio e sulle più differenti manifestazioni e reazioni, sulle rappresentazioni contrastanti, sulle discordanti narrazioni che ne sono state fatte, dalla spettacolarizzazione da talk show, fino all’incomprensibile disprezzo operato da frange di persone che con la razionalità hanno problematiche di interfacciamento.
Segnalo e consiglio per la lettura, sulla scia di queste considerazioni, alcune altre opere, che seppur nate dal medesimo terreno di coltura, tracciano prospettive visuali proprie e differenti.
Si offre al lettore con chiara evidenza ne "I racconti del Coronavirus" di Domenico Semisa, Wip edizioni, una amara rappresentazione del comportamento umano. Sia pur nella frammentazione dei tanti protagonisti che agiscono nell’opera, viene colta di fondo, nell’uomo ai tempi del Coronavirus, una condizione segnata da un ingenuo cinismo, da una condizione che tocca uomini e donne, adulti e bambini, segnata da una sorta di nichilismo depotenziato, un post nichilismo svuotato di contenuti, se mai è possibile svuotare qualcosa che già di per sé è vuoto per definizione, e caratterizzato da un mero disprezzo, o meglio da un atteggiamento sprezzante nei confronti di ideali, valori morali e sociali, alla ricerca di pure convenienze: un cinismo fratello povero e sfortunato del nichilismo.
Incredibile dictu, con lo sfaldarsi dei rapporti sociali, a seguito del confinamento forzato da coronavirus, anche quello che ormai inconsapevolmente appariva il tranquillo nichilismo del nostro tempo è diventato un nuovo modo di essere al mondo, un adattamento evolutivo capace di sciogliere in maniera più efficace i legami sociali.
Più incline alla riflessione storica, legata alla narrazione degli avvenimenti reali, sia sul piano universale che su quello locale, appare il testo di Giovanni Tria, “La pandemia. Cronaca da casa mia”, Adda Editore. La cronaca personalissima dello svolgersi degli avvenimenti permette di collocare le vicende nel giusto contesto e di dare significato a molti particolari che nel turbinio degli eventi a molti possono essere passati inosservati o non meritevoli di attenzione. La piacevole narrazione consente di portare facilmente il lettore dal piano della cronaca a quello della riflessione, con interrogativi aperti ai quali ciascuno può sforzarsi di dare la propria risposta.
Completa l’opera una raccolta di simpatici e spiritosi aneddoti, che aiutano a riderci un po’ su, accompagnati dalle efficaci illustrazioni di Giuseppe Inciardi.
Ad ampliare la prospettiva su orizzonti più ampi ci aiuta la pubblicazione di Donatella Di Cesare “Virus sovrano? L’asfissia capitalista”, Bollati Boringhieri, nel quale l’analisi sociale, economica e politica condotta dall’autrice su scala globale manifesta le convergenza tra l’azione killer del virus patogeno con l’azione soffocante dell’odierno turbocapitalismo finanziario che marca in maniera ancora più forte le disparità sociali tra protetti e indifesi, tra garantiti e precari, ben oltre qualsiasi idea di giustizia, in maniera sfrontata come non mai. La pandemia ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo e mostra l’impossibilità di salvarsi, se non con l’aiuto reciproco, imponendoci di pensare a un nuovo modo di coabitare.
Chiude questa breve rassegna “COndiVID” de L’incontro Edizioni – Acquaviva, una agile antologia di racconti, poesie e liberi pensieri di ben trentacinque autori che hanno voluto condividere il proprio vissuto nel primo ed emotivamente più provante isolamento forzato.
Inquietanti scene noir, componimenti dal candore fanciullesco, racconti e liriche di veri narratori e poeti, osservazioni sociologiche e di profonda analisi interiore compongono un florilegio unico nel suo genere, frutto di una scommessa lanciata e vinta per superare con la scrittura condivisa la solitudine imposta.
L’uomo è un essere narrante. Neppure il dolore e le tragedie più grandi, nelle quali ancora si fatica ad intravedere la via d’uscita, ci toglieranno l’arte e il piacere del buon raccontare.
In breve, è bene pensare anche raccontando, poiché a volte un evento non si esaurisce nel suo accadere, nemmeno se è narrato bene” (Ernst Bloch).

                                                                                                                             Vittorio Dinielli

giovedì 11 agosto 2022

 


Progetto per la realizzazione di un laboratorio di scrittura creativa, per lo sviluppo di abilità pratiche e per la socializzazione, attraverso il filo d'inchiostro di elaborati stampati, rilegati a mano e autopubblicati.

 

Premessa

L'Associazione culturale L'incontro - Onlus di Acquaviva delle Fonti (BA), auspicando la fine del duro periodo di isolamento sociale determinato dalle condizioni di emergenza sanitaria da Covid19, che hanno determinato anche un degrado nella qualità delle relazioni sociali in tutto il territorio, a detrimento soprattutto delle persone con fragilità o disagi relazionali, avendo sperimentato nelle proprie attività associative dell'ultimo biennio esperienze significative di integrazione sociale e avendo maturato abilità pratiche nel campo della piccola editoria e dell'autopubblicazione, al fine di condividere e attivare processi e buone pratiche di socializzazione, propone alla comunità locale il seguente progetto culturale-associativo e chiede agli Enti in oggetto il loro concreto sostegno per la sua realizzazione:

 

PAROLE, CARTA & COLLA
-PROGETTO EDITORIALE DI COMUNITÀ-

Promozione di sé
attraverso la scrittura e l'autopubblicazione

 

Obiettivi

Il progetto si propone di trasmettere le competenze indispensabili e di favorire l'acquisizione di abilità pratiche per la realizzazione di un progetto editoriale da autoprodurre, dalla sua ideazione sino alla pubblicazione, cartacea o digitale.

Il progetto si propone di favorire, attraverso l'attività letteraria e soprattutto tramite i percorsi di collaborazione che i laboratori pratici propongono e richiedono, la possibilità di socializzazione tra i partecipanti, la creazione di legami di collaborazione, nella convinzione di favorire forme di inclusione sociale, contestualmente all'acquisizione di abilità manuali e di conoscenze teoriche, finalizzate all'autorealizzazione di un libro.

Il progetto, aperto a tutti, è per le ragioni suddette naturalmente aperto alla possibilità di favorire l'inserimento nelle attività dei laboratori di persone svantaggiate, con difficoltà di socializzazione o anche, qualora il progetto fosse supportato dalle autorità e dalle istituzioni sanitarie di riferimento, anche da soggetti che potrebbero trarre beneficio psicologico e terapeutico, anche solo dal coinvolgimento di gruppo, e da tutti quei soggetti interessati da problematiche per le quali la valutazione e le indicazioni di tipo sanitario o sociale saranno di valore positivo.

Partecipanti

La partecipazione è aperta a tutti i membri della comunità locale e del territorio.

Gli iscritti al progetto potranno partecipare liberamente al corso completo o solamente ai laboratori di loro maggiore interesse.

La partecipazione prevede una quota di adesione di modesto importo, comunque non obbligatoria.

  

Il progetto si struttura attraverso i seguenti laboratori:

 

1)      Laboratorio di scrittura: poesie e racconti per esprimersi e raccontarsi.

Laboratorio creativo per sviluppare e valorizzare le proprie potenzialità creative.
 

2)      Laboratorio di impaginazione, grafica e stampa.

Il laboratorio si propone di trasmettere le conoscenze teoriche e pratiche per l'utilizzo dei più comuni e semplici software di grafica ed impaginazione.
Verranno svolte lezioni teoriche e pratiche con l'ausilio del software libero.
I partecipanti apprenderanno metodi pratici di impaginazione e stampa per la realizzazione di micropubblicazioni interamente autoprodotte.

 

3)      LABORATORIO DI LEGATORIA: ovvero come realizzare da sé il proprio libro.

Laboratorio pratico di legatoria, in brossura manuale, attraverso l'uso di colla e pennello. Il laboratorio si propone di valorizzare la produzione artigianale e l'autoeditoria, contestualmente alla possibilità di apprendere e sviluppare abilità manuali.

 

4)      Laboratorio di editoria digitale: creazione di e-book  

Il laboratorio si propone di trasmettere le conoscenze necessarie e di favorire l'acquisizione di abilità pratiche, finalizzate alla creazione di libri digitali, di e-book nei più diffusi formati elettronici in circolazione.

 

5)  Pubblicazione antologia

Il laboratorio prevede la pubblicazione, a cura dei partecipanti al progetto, di un volume o dell'antologia delle opere realizzate durante l’anno, sullo stimolo del corso di scrittura creativa e durante i laboratori letterari o anche delle opere pervenute durante tutto il periodo di svolgimento delle attività in progetto.

  

Durata prevista del progetto: 1 anno

Nota descrittiva

In riferimento alle finalità del laboratorio di scrittura, vogliamo evidenziare alcuni effetti psicologici che è possibile attendersi e che potrebbero naturalmente manifestarsi. Abbiamo rilevato, durante la nostra esperienza di attività in associazione, che in particolare modo la narrazione autobiografica, la promozione della comunicazione verso gli altri, utilizzando la scrittura come mezzo, può contribuire alla rielaborazione dei propri vissuti e al tentativo di definire la propria identità. Abbiamo avuto modo di constatare, durante il periodo di attività editoriale già svolto, che la scrittura diviene uno strumento che in maniera liberatoria può indurre al manifestare, come in confessione, il proprio disagio e la propria sofferenza. In tal senso il laboratorio diviene una opportunità e una forma di condivisione nel gruppo di lavoro delle proprie esperienze. Diventa quasi superfluo rimarcare la valenza socializzante, ovvero la possibilità concreta di favorire legami sociali, sviluppando la capacità di ascolto e di espressione, tutta insita in simili attività.

È ampiamente riconosciuto che la scrittura ha una vera e propria valenza terapeutica, che tuttavia non viene ricercata come fine primario nell'attività di laboratorio, il quale non persegue specificamente le finalità curative di un intervento sanitario: tali benefici possono esserne un possibile ed auspicato effetto, derivato dall'atto della comunicazione creativa ed emotiva che la parola scritta trasporta con sé.

Pur vivendo in un contesto storico sommerso dalla comunicazione scritta, il più delle volte il surriscaldamento cognitivo derivante dal flusso ininterrotto di messaggi lascia un vuoto che scaturisce da una comunicazione puramente informativa, se non solo pubblicitaria, frivola, frettolosa e superficiale, che nulla dice del nostro essere, di quello che siamo.

La scrittura è uno strumento in più per preservare la nostra mente, un aiuto contro ansia e depressione.

Il laboratorio di scrittura è in primo luogo un aiuto per favorire l'autoespressione, ovvero la possibilità di raccontare emozioni, sentimenti, di ricordare, di incontrare le ossessioni o le paure della vita, che normalmente restano inespresse. I laboratori del progetto diventano così quasi un antidoto ad una comunicazione puramente commerciale o industrializzata, dato che abitiamo in una società che poco favorisce l'autoespressione ed il racconto di sé.

La scrittura non è solo un mezzo di consolazione, ma occasione per il disvelamento di sé, esercizio pratico di autoconsapevolezza, strumento per avere una visione più profonda dei propri sentimenti, pensieri, comportamenti.

In questo senso possiamo affermare che la scrittura migliora la salute mentale, migliora l'autostima, l'autocontrollo e contribuisce a combattere ed eliminare lo stress.
Il laboratorio di scrittura è il luogo dove scrivere i propri pensieri ed è aperto a tutti, dato che per lo scrivere non sono richieste speciali abilità.

Va evidenziato, inoltre, che particolari benefici di socializzazione possono derivare, soprattutto per i soggetti con difficoltà di socializzazione, dalle attività manuali del laboratorio di legatoria.

L'associazione culturale L'incontro Onlus, quale motore attivo del terzo settore, intende porsi come promotore di inclusione sociale, attraverso la proposta della realizzazione di attività pratiche, attraverso l'esperienza artistica e letteraria, attraverso il laboratorio di legatoria, nella convinzione di un impatto positivo anche sulle persone più svantaggiate, come buona pratica sociale, alla ricerca del benessere della persona.

L'arte, intesa come espressione pratica di un saper fare, è anche un valore dell'espressione umana e della capacità che ha di aiutare coloro che la praticano o che ne fruiscono, uno strumento per stimolare le capacità della persona.

L'esperienza artistica, intesa in senso ampio, produce effetti benefici di valenza anche terapeutica. Si possono individuare enormi vantaggi derivanti dalle sollecitazioni psichiche e dagli stimoli derivanti dalle stimolazioni sensoriali, inserite in un ambiente di sane relazioni.

La bellezza artistica sprigiona tutta la sua potenzialità curativa nella condivisione di gruppo.

Sia la semplice fruizione di una creazione artistica, sia la produzione creativa artistica, che la sua condivisione in gruppo, sono fattori che incentivano la possibilità di generare benefici effetti psicologici e l'autoesplorazione individuale più profonda.

L'esperienza estetica promuove lo sviluppo e la crescita personali: diventa una risorsa e una disposizione positiva per affrontare le difficoltà della vita in maniera attiva ed efficace, arrivando a costituire un elemento protettivo rispetto all'insorgenza di disturbi psicologici, di ansia e depressione.

I laboratori proposti dall'associazione L'incontro Onlus di Acquaviva delle Fonti sono l'occasione per sperimentare gli effetti benefici l'attività artistica ed artigianale: in particolar modo, l'attività manuale di legatoria può sprigionare effetti positivi, di concentrazione e di rilassamento su di una persona, in special modo per lo svolgimento collaborativo e associativo dell'attività.

Il laboratorio pratico di legatoria coinvolge fisicamente la persona e la impegna al coordinamento motorio delle mani, nell'atto di incollaggio, coordinando la funzione cognitiva dell'attenzione e della concentrazione, a quelli puramente meccanici e motori del corpo.

Essendo una attività puramente manuale di facile esecuzione, l'attività di legatoria artigianale rafforza le capacità di coordinazione fra l'attività cognitiva, l'attenzione, ed il sistema nervoso periferico. Pur essendo un lavoro ripetitivo e di precisione, richiede l'acquisizione ed il mantenimento dell'attenzione e del coordinamento mente-occhio-mano, necessario per il corretto svolgimento del lavoro.

L'attività infine stimola e trova beneficio dall'interazione individuo-gruppo, favorisce l'acquisizione di abilità manuali e la capacità di interagire reciprocamente, di collaborare ad un progetto comune. È in questa ottica che il coinvolgimento sociale svela tutte le proprie possibilità.

Attraverso i laboratori artistici e pratici l'associazione intende promuovere, proprio come un'arteterapia, la valorizzazione dell'espressività personale, soprattutto perché risulta caratterizzarsi per il suo valore di rilevanza terapeutica, socializzante e riabilitante delle energie positive individuali. L'arte non è infatti solo un valore lenitivo della sofferenza, ma aiuta a recuperare o riattivare abilità e relazioni anche in soggetti svantaggiati o che comunque potrebbero trarre beneficio dalle proposte che scaturiscono dalle attività di progetto.

 Istruttori e operatori

I corsi, le lezioni ed i laboratori pratici saranno tenuti da soci o collaboratori dell'Associazione L'incontro Onlus di Acquaviva delle Fonti, anche sulla base dell'esperienza maturata attraverso le attività realizzate per le pubblicazioni del marchio editoriale associativo, L'incontro edizioni, e per la rinascita della piccola casa editrice Acquaviva, tra le più significative esperienze di autoproduzione libraria realizzate in Italia e che vanta la pubblicazione in esclusiva anche di diverse opere della poetessa Alda Merini.

 


domenica 17 luglio 2022

Quaderno aperto

- quaderno aperto -

La guerra non fa filosofia,

né i filosofi fanno la guerra


Il tuo pensiero per la pace. 
Invia il tuo contributo scritto, una tua riflessione, un aforisma, una immagine, un disegno, una canzone, una poesia, una citazione, un racconto, un poema, una frase o un fatto che ti ha colpito e fatto riflettere, uno studio, un trattato o semplicemente la tua opinione sulle complesse e dolorose vicende dei nostri giorni, quanto ritieni utile o qualsiasi altra cosa tu voglia condividere nelle pagine di questo quaderno nonviolento.
Usa la forma letteraria che ti è più congeniale.
Segnala i brani e le opere di autori contro la guerra, racconta la storia e tratteggia la figura di uomini di pace.
Non è un concorso a premi.
Non ci sono scadenze o limiti temporali.
La partecipazione è aperta a tutti ed è gratuita.
Il quaderno aperto contro la guerra è un progetto di scrittura collettiva che sarà pubblicato con i contributi di chiunque vorrà esprimere sotto qualsiasi forma un pensiero sui temi della pace, della fratellanza e della solidarietà umana.
Se è corretto affermare che la guerra è anche scienza al servizio della morte, non possiamo allora che tornare a considerare la differenza tra scienza e filosofia e la preminenza, la superiorità dell’una rispetto all’altra.
E’ nota l'affermazione secondo la quale “la scienza non fa filosofia”,  ovvero  della valutazione del valore e del suo ruolo limitato alla comprensione e alla spiegazione del funzionamento delle cose, dato che la scienza si occupa degli enti, mentre la filosofia manifesta la sua superiorità perché disvela la natura dell’essere.
Se la guerra è scienza per la morte, la filosofia, al contrario, è lungi dall’essere meditazione sulla morte, bensì si qualifica per il suo essere pensiero per la vita, per l’esistenza degli uomini.
Il surriscaldamento cognitivo prodotto dall’immenso flusso di notizie di cui siamo inondati favorisce il disinteresse verso le guerre in corso, a tal punto che c’è chi preferisce ignorare completamente l’evidenza dei pericoli e delle minacce che incombono. Assistiamo al verificarsi di una vera e propria scotomizzazione, a fenomeni di alterazione percettiva a seguito della quale la guerra semplicemente “non esiste più” ed in molti, sprofondati nell’indifferenza, sono infastiditi dal solo sentirne parlare.
Per chi non vuole rassegnarsi a spegnere il pensiero, chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie, serrare la bocca e riempirsi di amenità, le pagine di questo quaderno siano uno strumento nel duro lavoro per l'esercizio della libertà.


Spedisci il tuo contributo a:
vittorio.dinielli@gmail.com
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sabato 30 aprile 2022

 



venerdì 22 ottobre 2021

Piazza Peppino Impastato

 Piazza Peppino Impastato

- Acquaviva -

Da oggi anche la comunità cittadina di Acquaviva onora la memoria delle vittime della mafia con la dedicazione di una piccola piazza a Peppino Impastato nel quartiere San Giuseppe.
Molti sono quelli che conoscono la storia del giovane di Cinisi per via del famoso film I cento passi o anche per le canzoni che gli sono state dedicate o per i documentari storici che non mancano sulle vicende mafiose.
A raccontarci qualcosa di più, oltre gli episodi più noti rappresentati nella pellicola, a inquadrare meglio storicamente la vicenda politica, umana e intellettuale di Peppino Impastato è suo fratello Giovanni, alla cui presenza è stata scoperta la targa della piazza.
Peppino e Giovanni, due ragazzi che nel pieno degli anni '70 nella estrema provincia orientale di Palermo si scoprono figli di un mafioso.
Giovanni ci racconta oggi di suo fratello attraverso le pagine di un libro: Mio Fratello. Tutta una vita con Peppino.   
Ma ho la chiara impressione che Giovanni Impastato, in realtà, fa qualcosa in più!
La sua vita testimonia con tenacia e coraggio cosa significa cercare la verità!
E' questa la lezione e il testimone che Giovanni Impastato lascia alle persone che incontra e alle quali non smette di spiegare e raccontare la storia di suo fratello, della sua terra e della sua famiglia.
Cosa ha significato dall'uccisione di Peppino in poi cercare la verità?
Quante difficoltà ha incontrato quando il fratello veniva descritto come un terrorista? Quanto dolore e fatica è costato smentire le calunnie? Quanti sono stati i sacrifici per affermare la verità, quando bisognava lottare non solo contro i mafiosi, ma anche contro i primi giudici, i primi investigatori, contro chi si adoperò per deviare le indagini?
Afferma oggi Giovanni Impastato che "chi è rassegnato non ha più bisogno della verità".
Cercare la verità è il più delle volte un processo difficile e doloroso ed inevitabile è lo scontro con chi ha interesse a tenerla nascosta.
Cercare la verità costa sacrificio e non sono in molti quelli disposti a spendersi e a sacrificarsi per essa.
Cercare la verità è scomodante e faticoso.
La vicenda della famiglia Impastato mi riporta alla mente l'insegnamento di Giordano Bruno, quando affermava che "la verità è un valore in sé e per essa bisogna battersi al di là di ogni principio di ricompensa".
È proprio attraverso la testimonianza della ricerca della verità che ancora vedo in Giovanni Impastato è possibile avvalorare quella che già per S. Agostino era la più grande aspirazione dell'anima umana: "che cosa infatti l'anima desidera più fortemente della verità?" (Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni, XXVI, 5).
Quello di Peppino e Giovanni Impastato è essenzialmente un messaggio educativo, incarnato e testimoniato dalla propria vita.
È stato significativo a tal riguardo, in occasione dell'intitolazione della piazza, fare memoria di Austacio Busto, compagno di lotte politiche di una passata stagione, amministratore lungimirante e coraggioso testimone di giustizia, prematuramente scomparso.
Lo noto solo adesso.
Il calendario riporta oggi il nome di Giovanni Paolo II. Come dimenticare il suo grido ai mafiosi: "Lo dico ai responsabili! Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!"
Avrei voluto chiedere a Giovanni Impastato quanta eco e quanta forza, a suo parere,  le parole risuonate il secolo scorso nella Valle dei Templi in quel lontano Maggio del '93 hanno ancora oggi e se nuovamente è possibile fare appello alla coscienza dei mafiosi, dei colletti bianchi e di quanti oggi muovono le leve del potere.
Ma secondo Giovanni Impastato non sarà oggi la voce dell'appello di un uomo, ma il lavoro di una comunità a dimostrare concretamente che il male si può sconfiggere e che c'è una possibile alternativa alla scelta criminale.
Con riconoscenza.

 Acquaviva delle Fonti, 22/10/2021






sabato 19 dicembre 2020

Paesaggi imperfetti



Milioni di pixel, ogni anno sempre più numerosi nel rispetto della nota legge di Moore, che la tecnologia sforna con valori esponenziali, con chip sempre più performanti, con sensori sempre più sofisticati, con software e automatismi da intelligenza artificiale, popolano in maniera sempre più aggressiva le modernissime strumentazioni fotografiche che professionisti del settore e dilettanti appassionati utilizzano quotidianamente per il proprio lavoro o nel tempo libero.
Stupefacente davvero è la qualità degli scatti che si possono ottenere con simili meraviglie della tecnologia.
Ma l'arte è un'altra cosa.
Se la tecnologia è in grado di catturare l'immagine o persino di crearla, l'arte è capace di cogliere l'idea, di leggere l'anima, di darci la possibilità di provare una sensazione e di trasmettere un'emozione.
A riprova di questa elevazione dell'arte sulla tecnologia, possiamo ammirare gli scatti che Vincenzo Mele, spogliatosi delle sue vesti professionali, ha realizzato nella nostra terra... a mani nude!
Abbandonato tutto l'armamentario tipico del fotografo professionista, si è buttato disarmato nei suoi quotidiani percorsi mattutini, nelle tranquille passeggiate per i viottoli extraurbani.
Che effetto fa cogliere la perfezione della natura con l'imperfezione dello strumento utilizzato per scattare?
Paesaggi imperfetti è il titolo della mostra fotografica diffusa, che abbellirà le vetrine dei negozi di via Iacoviello a Santeramo e che raccoglie il frutto di questa esperienza.
I paesaggi ritratti sono "imperfetti" perché sono immortalati al volo, con istantanee colte con un semplice telefonino, anche vecchiotto in verità, durante comuni passeggiate; a mano libera, senza l'ausilio di alcuna attrezzatura, cavalletti o obiettivi particolari, senza la ricerca della posa giusta e della luce più efficace. Imperfetti perché ripresi spesso per l’appunto in condizioni di luce critiche e da un mezzo poco sofisticato.
Paesaggi e scorci marginali, scatti privi della ricercatezza della spettacolarità a tutti i costi, paesaggi fuori da qualsiasi circuito turistico o escursionistico.
Cambiando forse il mezzo fotografico cambia anche la maniera in cui l'uomo vede la natura?
Di fatto, nei secoli passati, l'uomo ha cambiato il modo di vedere e di pensare il suo ambiente naturale, dapprima considerandolo come una prova o una traccia dell'esistenza di un Creatore, fino poi ad arrivare anche a ritenerlo il luogo dell'immanenza della divinità, come Spinoza affermava col suo Deus sive natura.
Dall'osservazione della natura è scaturita poi la teoria dell'origine delle specie di Darwin, negando non solo qualsiasi trascendenza divina ma qualsiasi fine teleologico della natura.
Nel pensiero del secolo appena passato la natura è il luogo della condizione dell'uomo nella sua gettatezza nell'esistenza, del suo essere buttato nel mondo senza alcun progetto sovraordinato.
Più fraternamente, secondo lo spirito francescano, preferiamo considerare la natura come sorella, o ancor più teneramente come nostra Madre Terra.
In qualsiasi modo vogliamo considerarla, sta di fatto che la natura è ancora là, con i suoi paesaggi mozzafiato.
Imperfetti, in realtà, non sono i paesaggi, ma spesso lo sono alcuni comportamenti umani, soprattutto quelli che deturpano la natura, la infangano, la inquinano e la distruggono.
Imperfetta non è la natura, ma la realtà umana. La stessa che un Dio ha voluto assumere nel mistero del Natale. La murgia, in fondo, come a me sembra, è un po' come la terra in cui nacque Cristo.
Comunque la si voglia vedere, in qualsiasi momento del giorno e della notte, la natura è dovunque e sempre là in attesa di essere guardata, come una donna sempre pronta a mostrarsi in tutta la sua nuda bellezza, come nel primo giorno di un fulgido amore.
Solo chi ha occhi amorevoli per questo territorio può percepirne il caratteristico fascino, la sua malia particolare, la suggestione avvincente, l'atmosfera d'incanto indefinibile.
Vincenzo Mele, in questo, ha avuto ancora una volta occhi tenerissimi per la Murgia, nella quale viviamo.

 Vittorio Dinielli


domenica 25 ottobre 2020

Un Golem a difesa della mia anima

UN GOLEM A DIFESA DELLA MIA ANIMA

 


Nell'angoscia del tempo presente e dell'affanno che ci circonda, tra timori, allarmismi, ingenuo rassicurazionismo, tra la paura e il turbamento del pericolo della nuova peste che avanza e ci minaccia, attoniti facciamo esperienza della sensazione della meraviglia, fortemente impressionati, sbalorditi come da un evento inatteso e sconosciuto che spaventa e crea inquietudine: è anche questa la mostruosità dei nostri giorni. 
Tocca all'arte questa volta offrirci una ragione di liberazione dalle tensioni ed evocare a nostra difesa una figura mitologica, la cui tradizione percorre sia gli antichi testi biblici, quanto i più moderni miti letterari.
Si chiama appunto GOLEM l'esposizione artistica a cura di Vittorio Racano e Giuseppe Vallarelli presso il castello medievale di Sannicandro di Bari, inaugurata ieri 24 ottobre e visitabile fino al 7 novembre dalle 17.00 alle 20.00.
Per chi volesse fare esperienza della liberazione da un senso di angoscia, questa la sensazione catartica provata all'uscita dalla mostra, consiglio di non perdere questa occasione.
Ci sono immagini che aiutano a pensare e quelle di Vittorio Racano lì esposte qualche domanda ora continuano a pormela.
In questo tempo di paura che cosa è realmente sotto minaccia e per cosa dovremmo rifugiarci sotto la protezione di un Golem?
Non sorprende nei tempi di crisi che questo essere torni di attualità: insieme al volto della mostruosità si cela anche quello della speranza.
Qualcuno ha sostenuto che gli artisti che lo creano giocano col Golem con l'ebbrezza di chi maneggia materiale esplosivo: lo modellano e gli imprimono la forma, gli danno una sembianza che poi ritornerà come materia informe di nuovo alla terra.
Potente e devastante, furioso e fragile al tempo stesso, come l'argilla della quale è composto, un tempo programmato per difendere gli ebrei, oggi invochiamo un Golem per proteggere i migranti del mondo, gli esiliati, gli emarginati, il diverso e lo straniero che fa paura.
Il Golem è il mito della libertà, dei rischi della nostra libertà: se è vero che il Golem esegue la volontà di chi lo ha programmato, come tale non ha una morale.
Nella bibbia l'uomo è stato il Golem di Dio.
Se dalla libertà dell'uomo, o dell'umano Prometeo, è derivato il progresso, quale libera volontà oggi esprime l'uomo per la difesa e il progresso dell'umanità?
In questo tempo di crisi vedo l'uomo dare in meglio ed il peggio di se stesso.
La questione del bene e del male viene prepotentemente evocata e portata al centro dell'attenzione da immagini e forme che accompagnano il cammino del visitatore, quanto quello del pellegrino.
Il percorso della mostra si conclude in un piccolo spazio, un tempo verosimilmente dedicato alla preghiera, come un inginocchiatoio lasciato sul posto lascia intendere.
Possano anche questi simulacri difendere la nostra umanità dai nemici che una società nutrita da una insaziabile avidità produce.















sabato 25 aprile 2020

La città nel tempo delle chiese vuote

 La città nel tempo delle chiese vuote

Sono passati più di venticinque anni, ma mi sembra ieri quella notte in cui, usciti dalla Cattedrale, al termine di una delle sue lunghe e profonde riflessioni bibliche che tenevano calamitata la mia attenzione, don Giovanni, col pretesto di chiedermi di controllare che ora fosse, mi invitava a leggere anche cosa vedessi “sull’orologio”. 
La richiesta, che poteva sembrare a primo impatto curiosa, non mi parve in realtà affatto strana, dato che giusto da poco avevamo commentato anche il brano della lettera del cardinale Martini, Sto alla porta, che riguardava appunto il tempo. 
Fu quella notte che presi coscienza del fatto che sulla torre civica della mia città campeggiava una scritta il cui senso mai più avrei dimenticato. 

Nell’incerta lettura alla luce dei lampioni della notte mi apparve allora in tutta la sua spaventosa solennità un “LONGOS SIC VORAT HORA DIES”, sulla cui più felice traduzione possibile ci soffermammo ancora a discutere, a notte già inoltrata, il tempo necessario per concordarne una che ne offrisse i più ampi campi di significato. Alla fine ci accordammo per un “COSÌ L’ORA ROSICCHIA ANCHE I LUNGHI GIORNI”, una proposta di traduzione che, discostandosi appena dalla lettera di quella lapidaria sentenza, cercasse di aprire un altro squarcio di significato, mascherando la potenza divoratrice del tempo con il trascurabile, più mite o impercettibile suono del rosicchiare di un roditore o di un minuscolo tarlo all’opera nel suo tronco. 


Ho creduto fino ad oggi che è il tempo a passare, come tutte le evidenze e tutti gli strumenti di misura del tempo stesso stanno a indicarci.
Solo oggi mi rendo conto che il tempo è ciò che resta e che ciò che passa è l’uomo: il tempo resta, l’uomo nasce, vive e muore, come il giorno di ieri che è passato.
Riguardo oggi la stessa torre e cammino nella mia città deserta.
Non si è fermato il tempo. Si è fermato l’uomo.
Questa volta non è il tarlo del tempo, ma solamente un virus.
Guardo la piazza, le strade, le case, il Palazzo comunale, le chiese e mi chiedo se è questa la mia città, la città per l’uomo.
Che cosa è in fondo una città?
La seconda più bella definizione che ho ascoltato a proposito della natura della città mi riporta alla mente le parole di Zigmunt Bauman in Modernità liquida:
“La città è il luogo dove poter incontrare persone”. Alla luce di questa enunciazione continuo a camminare per le strade del paese, realizzando di camminare nella definizione negativa della città.
Non incontro nessuno.
I negozi sono chiusi. Le strade desolate. A breve inizia anche a piovere.
Una città ammutolita in quarantena sembra una non-città. Le case assomigliano a moderni bunker, ma per fortuna non mi danno, come per altri, l’impressione di una moderna Pryprjat. Sarà sicuramente perché, camminando, sento il calore rassicurante delle bellissime chiese poste a custodia della sua bellezza.
Anche queste sono chiuse.
Forse finalmente arriverà anche il tempo di vivere il cristianesimo per le strade.
Sono in molti a commentare in televisione il senso di smarrimento dei fedeli, del gregge che non può riunirsi nel tempio, nei luoghi di culto.
Per quello che posso intuire le cose mi sembrano stare in maniera esattamente diversa: gli uomini non sono smarriti, perché sono troppo preoccupati e presi dalla viva necessità di procurarsi il pane quotidiano, di far fronte con dignità alle problematiche pratiche ed economiche che la nuova situazione nella quale siamo stati gettati ci pone davanti, alle necessità immediate di soccorrere con i mezzi disponibili i propri cari in difficoltà, di assicurare ai genitori anziani tutto l’affetto e l’assistenza materiale possibile e necessaria ad una vita dignitosa.
Ad essere smarriti non sono i fedeli, ma quei pastori che, interpretando il loro ruolo come meri dispensatori ed amministratori di sacramenti, vedendo le chiese chiuse, non sono ora più in grado di darsi una ragione del loro ruolo. Sono smarriti quei prelati e quei porporati che, vedendo piazza San Pietro deserta e la Basilica vuota durante le celebrazioni pasquali, ancora non sono capaci di darsi e di dare una ragione, come tramortiti e inabili a trovare una spiegazione al significato dell’esistenza.
Muti, invece di rispondere alle domande sull’esperienza e sull’origine del male che loro pone l’umanità provata, quasi incapaci ormai di parlare e di farsi capire dall’umanità.
“Unde malum?” (da dove viene il male?), è uno di quegli interrogativi che ancora fa scorrere sulla nostra schiena un brivido di sudore, che ancora scava nella nostra coscienza un solco doloroso.
Cosa vediamo invece? Preti che celebrano l’Eucarestia da soli, nelle chiese vuote o nella propria camera, ripresi da una webcam che trasmette in streaming. Si celebra nel tempio, ma senza il popolo.
È il rovesciamento della natura profonda della fede cristiana, fondata su una dimensione comunitaria, che ora è inevitabilmente assente.
Forse è questo il tempo in cui Dio non ci aspetta più nel tempio, ma fuori al servizio degli altri.
Lo smarrimento è tutto in quei ministri di Dio ormai incapaci di dare una risposta alla domanda “dove è Dio?”, se a Dio interessano ancora il destino e le azioni dell’umanità.
Questa pandemia ha messo in evidenza non il dramma dell’umanesimo ateo, ma quello di una religiosità naturale, coltivata ancora oggi diffusamente. Dove non è riuscito neppure Nietzsche con il suo intento di uccidere non solo il dio metafisico, ma il Dio del cristianesimo, completa l’opera il Covid-19 con i suoi effetti secondari, indiretti e involontari.
Sento la mia anima trafitta da un dolore indicibile quando dalle onde radio di una nota emittente sento nuovamente parlare delle catastrofi naturali e della pandemia da virus come “il castigo di Dio”.
Dio castiga e usa misericordia ripete il disco stonato di una vecchia teologia preconciliare, impugnata come un’arma contro l’umile Vescovo di Roma dai fieri oppositori dell’annuncio di una Chiesa povera.
Mentre cammino nella città del tempo delle chiese vuote, ascolto il messaggio di un pellegrino di Cristo che da una TV rimbalza per le strade: è la preghiera che annuncia la Pasqua.
Quest’anno qui.
“L’anno prossimo a Gerusalemme!”

    Vittorio Dinielli

V. Dinielli, La città nel tempo delle chiese vuote, in COndiVID, antologia dalla quarantena, con i contributi di 35 autori italiani, L'incontro Edizioni, Acquaviva 2020. 

mercoledì 21 agosto 2019


LA CALABRIA NON È L’INFERNO:
È LA CONDIZIONE DI SENTIRSI ALL’INFERNO ABBANDONATI.
Viaggio d'estate.



Non avrei mai creduto di trovare quello che ho visto.
Lasciata da poco l’uscita Pizzo della Salerno-Reggio Calabria, la litoranea in direzione Tropea mostrava in tutta la sua evidenza lo squallido spettacolo di buste di spazzatura buttate lungo i bordi della strada: una visione davvero triste di cui un turista volentieri farebbe a meno e mai penserebbe di incontrare in località turistiche tanto pubblicizzate.
Credevo fino ad allora che i cumuli di monnezza che è possibile trovare nelle strade dell’entroterra barese fossero il massimo dell’inciviltà, ma questo ben più lungo spettacolo ha segnato il primato.
Ad impreziosire il paesaggio, un numero imprecisato di monumenti al mattone forato, costruzioni incompiute in cemento, molte delle quali in forte odore di abusivismo o di spregio delle norme urbanistiche o del buon gusto: un pugno nell’occhio alla bellezza e all’armonia del paesaggio circostante.
Arriviamo nella località scelta per il nostro soggiorno.
Non mi aveva turbato affatto apprendere dai TG nazionali poco prima della partenza, che proprio in quella piccola località turistica era stato arrestato un pericoloso latinante della criminalità organizzata del territorio, notoriamente conosciuta con il nome di ‘ndrangheta.
A differenza di chi oltre venti anni fa definiva il meridione come “L’inferno” per la presenza della criminalità, sono dell’opinione opposta: credo che proprio in queste terre si è sviluppata la migliore investigazione che l’Italia ha messo in campo nella lotta alle mafie.
La Calabria non è l’Inferno che descriveva Giorgio Bocca proprio all’inizio del suo libro, è soprattutto l’intelligenza messa in campo per riscattarla.
Devo tuttavia riconoscere che Bocca non aveva visto o vissuto quanto mi è capitato di vivere in questa vacanza, al pronto soccorso di Vibo Valentia.
Calabria. Un luogo benedetto da Dio e maledetto dagli uomini.
Trascorsi i primi giorni su di una bellissima spiaggia, decidiamo di puntare a Reggio Calabria per visitare i bronzi di Riace.
È ferragosto. Dopo aver malauguratamente deciso di abbandonare la mappa geografica per seguire le indicazioni stradali del navigatore ed aver percorso improbabili ed impraticabili sentieri montani nel tentativo di giungere all’imbocco autostradale, sbuchiamo all’ingresso di Rosarno.
L’aria è pestifera, quasi irrespirabile, avvelenata da un odore legato a qualche trattamento chimico.
Un cartello stradale traforato da buchi di grosso diametro non lasciano dubbi sulla identità del posto.
Attraversiamo la città. Una selva di antenne che affollavano il tetto di un palazzo si palesavano davanti.
Che sarà mai? mi chiedevo: la centrale delle telecomunicazioni?
No. Un hotel. Incredibile visu. Inquinamento elettromagnetico, questo sconosciuto! E se anche fossero antenne spente, di certo non era un bello spettacolo.
La visita al museo archeologico di Reggio Calabria è stata davvero deludente.
Non mi riferisco alla scarsità, all’esiguità del numero degli oggetti in mostra o alla dimensione degli spazi espositivi.
Ho visitato molti musei in vita mia e mai ho trovato una confusione ed una gestione così approssimativa del flusso dei visitatori, tale da rendere la visita davvero caotica al punto da far risultare poco godibile la visione delle opere esposte.
Ritorniamo al nostro alloggio, decidendo questa volta di non incorrere nell’errore dell’andata e di percorrere interamente la Salerno-Reggio, in direzione opposta questa volta.
Non sto a raccontarvi tutta la mia sorpresa quando ad un tratto sull’autostrada si palesano in successione a ripetizione grandi cartelli gialli che grosso modo dicevano: “tratto di autostrada dal Km tot al Km tot sottoposto a sequestro dall’A.G.”.
È possibile e sicuro viaggiare su un’autostrada sotto sequestro?
L’emozione cresce quando mi raccontano delle carenze della qualità del cemento utilizzato e del rischio di stabilità dei piloni a causa di imperizie progettuali e di errati studi idrici-geologici.
Scegliamo il giorno successivo di cambiare lido.
Affittiamo così un ombrellone e due sdraio.
L’assenza di una ricevuta ci fa pensare ad una attività a nero, ma la presenza di una bandiera rossa issata ed il fischio di un bagnino ci induceva a credere che si trattasse di un lido presidiato e non di quelli totalmente illegali, come ci raccontavano era possibile trovare nella baia di Riaci, dove appunto ci trovavamo.
Certo che la presenza di un bagnino più vigile, la presenza di un defibrillatore e anche di personale preparato ad affrontare emergenze sanitarie sulla spiaggia, potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte! (Sic!)
Una mattinata trascorsa solo a prendere il sole. Poi un malore, un evento infausto, il pericolo, la chiamata al 118, l’arrivo dei soccorritori, il trasporto all’ospedale di Vibo Valentia.
Chi era con me in vacanza ha ricevuto tutte le cure che il caso richiedeva, necessarie a mettere al sicuro la vita.
Un vero miracolo!
E credo che oltre alla professionalità della dottoressa che ha preso in carico e ha seguito il decorso dell’evento traumatico, proprio di miracolo bisogna anche parlare, se si tiene conto delle condizioni lavorative, della scarsità di personale e dello stato di fatiscenza della struttura nella quale gli operatori sanitari di Vibo Valentia sono costretti ad operare.
È inimmaginabile credere che in Italia possano esistere strutture sanitarie ridotte in uno stato talmente pietoso.
Ospite involontario per quasi quattro giorni presso la struttura di Osservazione Breve Intensiva legata al pronto soccorso, non ho potuto fare a meno di registrare una dopo l’altra molte delle carenze che la struttura mostra.
Il pronto soccorso si presenta angusto, con gli spazi delle medicherie davvero ridotti, a volte occupati anche da tre barelle contemporaneamente. Solo in un ambulatorio ho visto una lampada scialitica.
Il livello di pulizia generale lascia molto a desiderare.
Quello che colpisce è la scarsità di personale medico ed infermieristico ed il sovraffollamento incontrollato di pazienti in attesa nel corridoio, con un livello di tensione e di confusione crescente e costante.
Pressoché assente il personale ausiliario.
La disponibilità degli infermieri è altissima, ma è evidente che sono impegnati anche per mansioni che vanno ben oltre la specificità del loro ruolo, come dispensare i pasti o trasportare i prelievi in laboratorio.
Il carico degli infermieri è aggravato dall’assenza totale di personale nell’OBI, per cui gli stessi infermieri, oltre a far fronte alle necessita delle medicherie di pronto soccorso, devono occuparsi della somministrazione delle terapie ai pazienti in osservazione.
Per assenza di posti disponibili nella struttura, sembra che l’OBI venga utilizzato anche come luogo d’appoggio e di ricovero temporaneo.
Vi lascio solo immaginare cosa succede quando per una qualsiasi ragione manca una sola unità per personale medico o infermieristico nel turno di lavoro, col rischio stesso che non venga somministrata la terapia a chi è degente in osservazione.
Capita anche che per interi turni il personale medico non riesca a fare nemmeno un giro di visita, come avviene di regola in ogni struttura sanitaria normale e come ogni persona sofferente ricoverata ha diritto che avvenga.
Capita anche che per via della tensione che si crea a causa del numero delle richieste che piovono dai molti fronti un medico possa gridarti contro ancor prima che tu possa aprir bocca per formulare una richiesta di qualsiasi natura.
Il livello di pulizia delle stanze di degenza dell’OBI è davvero scarso non solo sul pavimento: c’è sporcizia evidente sulle pareti e sulle tapparelle. Il bagno cieco.
È domenica. Un condizionatore gocciola nel corridoio. Si è già formata una pericolosa pozza d’acqua che costituisce un pericolo serio di scivolare per chi lo attraversa, personale, pazienti e parenti.
Il gocciolio è ininterrotto. Non interviene nessun tecnico, nessun manutentore.
Vedo una dottoressa aprire il quadro elettrico e disarmare una linea di interruttori.
Un altro medico butta delle lenzuola sulla pozza d’acqua per asciugarla.
Bisognerà aspettare un giorno per vedere l’intervento di un tecnico. Pieno agosto nella corsia di un ospedale!
La biancheria sembra scarseggiare. Alcuni parenti di pazienti ricoverati portano da casa le lenzuola.
Vedo scorrere acqua gialla dal rubinetto del bagno.
Una porta tagliafuoco separa il corridoio delle medicherie del pronto soccorso dalle stanze di degenza OBI.
È ridotta talmente male da aprirsi ormai a fatica. Il maniglione antipanico ormai non svolge più la funzione per la quale è stato progettato. Paradossalmente in caso di incendio, non aprendosi a chi non sa quanta violenza occorre esercitare per azionarla, sarebbe un elemento che creerebbe panico, o peggio ancora una pericolosa trappola!
Di notte non si riesce a dormire per via di un forte rumore proveniente dall’esterno come di compressore che segna sul mio fonometro un valore con punte di 72 decibel.
Avverto il centralinista, ma senza alcun esito.
Non si possono tenere chiuse le finestre nel tentativo di ridurre il rumore per via del caldo.
Provo ugualmente, ma l’effetto è opposto: i vetri delle finestre tremano e fungono da pelle di tamburo.
Eppure la qualità delle condizioni di degenza dovrebbe essere parte integrante della cura!
Nessun inserviente accompagna i pazienti ricoverati alle visite strumentali. C’è chi va anche da solo a fare i raggi o la TAC.
Trascorro il mio secondo giorno per fare assistenza per quel che posso all’ospedale di Vibo Valentia.
Ho parcheggiato la mia automobile in prossimità del pronto soccorso dietro la striscia blu, premurandomi di pagare il parcheggio per l’intera giornata.
Quando la sera torno in auto per recuperare generi di conforto, mi accorgo con sorpresa di una multa della polizia municipale che campeggia sotto il tergicristallo.
Cerco di spiegare all’operatore di polizia che contatto per telefono la situazione nella quale mi trovo e soprattutto il fatto che il pagamento della sosta l’avevo regolarmente effettuato ed esposto in maniera visibile il talloncino sul cruscotto.
Vana per un’ora l’attesa della pattuglia inviata per visionare la prova di pagamento.
Armato di santa pazienza di reco di persona al comando per la pratica del caso.
Personalmente ho creduto nella possibilità che si fosse trattato di un errore materiale dell’operatore.
Ad ascoltare quanto raccontavano abitanti del posto, potrebbe sembrare invece il frutto di una politica tendente a far cassa sulle spalle di automobilisti che per una ragione o per un’altra non hanno la possibilità di presentare l’istanza dell’annullamento della multa.
Se davvero fosse così, ci sarebbe da chiedersi in che razza di paese mi è capitato di finire!
Gli episodi spiacevoli in questi quattro giorni di permanenza si sono accaniti quasi su di un novello Giobbe.
Sarebbe troppo lungo starli a raccontare tutti nello specifico.
Di fatto non mi son fatto mancare neppure un inseguimento da parte di un branco di cani randagi, una puntura di vespa per aver involontariamente urtato la busta di spazzatura nella quale stavano banchettando, trovare la farmacia chiusa senza alcun cartello sulle ragioni della chiusura, trovare un’infermiera che ti dice che nel reparto non hanno medicinali per la puntura di insetti, telefonare ad un hotel per poi recarmi in un altro, smarrire alcuni effetti personali… tutto sommato si tratta di piccoli inconvenienti della vita.
Che nome dare a tutto questo?
Concatenazione di eventi sfavorevoli?
Forse, Calabria. Un luogo dove puoi sperimentare la condizione di sentirti all’inferno abbandonato.


Un giudizio sintetico sul pronto soccorso di Vibo Valentia
Stato della struttura:                     fatiscente, del tutto insufficiente
Manutenzione:                              pessima
Pulizia:                                          scadente
Professionalità infermieri:            ottima
personale ausiliario                       praticamente assente

UN RINGRAZIAMENTO SPECIALE ALLA DOTT.SSA MARIANNA RODOLICO, AL TEAM DEL 118 E AGLI INFERMIERI CHE CON PROFESSIONALITÀ E MOLTA DISPONIBILITÀ HANNO MOSTRATO CHE PUR NELLA PRECARIETA’ DEI MEZZI CONTINGENTI È ANCORA POSSIBILE L’EMPATIA E LA SOLIDARIETÀ UMANA.


Vittorio Dinielli