sabato 25 aprile 2020

La città nel tempo delle chiese vuote

 La città nel tempo delle chiese vuote

Sono passati più di venticinque anni, ma mi sembra ieri quella notte in cui, usciti dalla Cattedrale, al termine di una delle sue lunghe e profonde riflessioni bibliche che tenevano calamitata la mia attenzione, don Giovanni, col pretesto di chiedermi di controllare che ora fosse, mi invitava a leggere anche cosa vedessi “sull’orologio”. 
La richiesta, che poteva sembrare a primo impatto curiosa, non mi parve in realtà affatto strana, dato che giusto da poco avevamo commentato anche il brano della lettera del cardinale Martini, Sto alla porta, che riguardava appunto il tempo. 
Fu quella notte che presi coscienza del fatto che sulla torre civica della mia città campeggiava una scritta il cui senso mai più avrei dimenticato. 

Nell’incerta lettura alla luce dei lampioni della notte mi apparve allora in tutta la sua spaventosa solennità un “LONGOS SIC VORAT HORA DIES”, sulla cui più felice traduzione possibile ci soffermammo ancora a discutere, a notte già inoltrata, il tempo necessario per concordarne una che ne offrisse i più ampi campi di significato. Alla fine ci accordammo per un “COSÌ L’ORA ROSICCHIA ANCHE I LUNGHI GIORNI”, una proposta di traduzione che, discostandosi appena dalla lettera di quella lapidaria sentenza, cercasse di aprire un altro squarcio di significato, mascherando la potenza divoratrice del tempo con il trascurabile, più mite o impercettibile suono del rosicchiare di un roditore o di un minuscolo tarlo all’opera nel suo tronco. 


Ho creduto fino ad oggi che è il tempo a passare, come tutte le evidenze e tutti gli strumenti di misura del tempo stesso stanno a indicarci.
Solo oggi mi rendo conto che il tempo è ciò che resta e che ciò che passa è l’uomo: il tempo resta, l’uomo nasce, vive e muore, come il giorno di ieri che è passato.
Riguardo oggi la stessa torre e cammino nella mia città deserta.
Non si è fermato il tempo. Si è fermato l’uomo.
Questa volta non è il tarlo del tempo, ma solamente un virus.
Guardo la piazza, le strade, le case, il Palazzo comunale, le chiese e mi chiedo se è questa la mia città, la città per l’uomo.
Che cosa è in fondo una città?
La seconda più bella definizione che ho ascoltato a proposito della natura della città mi riporta alla mente le parole di Zigmunt Bauman in Modernità liquida:
“La città è il luogo dove poter incontrare persone”. Alla luce di questa enunciazione continuo a camminare per le strade del paese, realizzando di camminare nella definizione negativa della città.
Non incontro nessuno.
I negozi sono chiusi. Le strade desolate. A breve inizia anche a piovere.
Una città ammutolita in quarantena sembra una non-città. Le case assomigliano a moderni bunker, ma per fortuna non mi danno, come per altri, l’impressione di una moderna Pryprjat. Sarà sicuramente perché, camminando, sento il calore rassicurante delle bellissime chiese poste a custodia della sua bellezza.
Anche queste sono chiuse.
Forse finalmente arriverà anche il tempo di vivere il cristianesimo per le strade.
Sono in molti a commentare in televisione il senso di smarrimento dei fedeli, del gregge che non può riunirsi nel tempio, nei luoghi di culto.
Per quello che posso intuire le cose mi sembrano stare in maniera esattamente diversa: gli uomini non sono smarriti, perché sono troppo preoccupati e presi dalla viva necessità di procurarsi il pane quotidiano, di far fronte con dignità alle problematiche pratiche ed economiche che la nuova situazione nella quale siamo stati gettati ci pone davanti, alle necessità immediate di soccorrere con i mezzi disponibili i propri cari in difficoltà, di assicurare ai genitori anziani tutto l’affetto e l’assistenza materiale possibile e necessaria ad una vita dignitosa.
Ad essere smarriti non sono i fedeli, ma quei pastori che, interpretando il loro ruolo come meri dispensatori ed amministratori di sacramenti, vedendo le chiese chiuse, non sono ora più in grado di darsi una ragione del loro ruolo. Sono smarriti quei prelati e quei porporati che, vedendo piazza San Pietro deserta e la Basilica vuota durante le celebrazioni pasquali, ancora non sono capaci di darsi e di dare una ragione, come tramortiti e inabili a trovare una spiegazione al significato dell’esistenza.
Muti, invece di rispondere alle domande sull’esperienza e sull’origine del male che loro pone l’umanità provata, quasi incapaci ormai di parlare e di farsi capire dall’umanità.
“Unde malum?” (da dove viene il male?), è uno di quegli interrogativi che ancora fa scorrere sulla nostra schiena un brivido di sudore, che ancora scava nella nostra coscienza un solco doloroso.
Cosa vediamo invece? Preti che celebrano l’Eucarestia da soli, nelle chiese vuote o nella propria camera, ripresi da una webcam che trasmette in streaming. Si celebra nel tempio, ma senza il popolo.
È il rovesciamento della natura profonda della fede cristiana, fondata su una dimensione comunitaria, che ora è inevitabilmente assente.
Forse è questo il tempo in cui Dio non ci aspetta più nel tempio, ma fuori al servizio degli altri.
Lo smarrimento è tutto in quei ministri di Dio ormai incapaci di dare una risposta alla domanda “dove è Dio?”, se a Dio interessano ancora il destino e le azioni dell’umanità.
Questa pandemia ha messo in evidenza non il dramma dell’umanesimo ateo, ma quello di una religiosità naturale, coltivata ancora oggi diffusamente. Dove non è riuscito neppure Nietzsche con il suo intento di uccidere non solo il dio metafisico, ma il Dio del cristianesimo, completa l’opera il Covid-19 con i suoi effetti secondari, indiretti e involontari.
Sento la mia anima trafitta da un dolore indicibile quando dalle onde radio di una nota emittente sento nuovamente parlare delle catastrofi naturali e della pandemia da virus come “il castigo di Dio”.
Dio castiga e usa misericordia ripete il disco stonato di una vecchia teologia preconciliare, impugnata come un’arma contro l’umile Vescovo di Roma dai fieri oppositori dell’annuncio di una Chiesa povera.
Mentre cammino nella città del tempo delle chiese vuote, ascolto il messaggio di un pellegrino di Cristo che da una TV rimbalza per le strade: è la preghiera che annuncia la Pasqua.
Quest’anno qui.
“L’anno prossimo a Gerusalemme!”

    Vittorio Dinielli

V. Dinielli, La città nel tempo delle chiese vuote, in COndiVID, antologia dalla quarantena, con i contributi di 35 autori italiani, L'incontro Edizioni, Acquaviva 2020. 

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